La grande corsa al riarmo digitale
Pubblicato in origine su Pagina99 nell’ottobre 2017
Rivoluzione Artificiale (ed. Informant, 2017) è acquistabile su Amazon in formato ebook (3,99 €) e cartaceo
Prima la polvere da sparo, poi le armi nucleari e adesso le applicazioni belliche dell’intelligenza artificiale (e non solo). Quella in corso è la terza rivoluzione militare, potenzialmente in grado di rendere i conflitti sempre meno pericolosi per i soldati, di ridurre il numero di vittime civili e di aumentare enormemente l’efficacia delle azioni compiuti nei teatri di guerra. “Tutte le nuove tecnologie militari hanno un solo scopo: aumentare la sicurezza di chi si trova in prima linea”, spiega Marco Buratti, direttore Marketing & Vendite della divisione Elettronica per la Difesa Terrestre e Navale di Leonardo (ex Finmeccanica). “Sono innovazioni che permettono di misurare con precisione i risultati delle operazioni, agire in condizioni di maggiore sicurezza e reagire in tempi più rapidi, limitando al massimo gli errori”.
Questo, almeno, è un lato della medaglia. Sul rovescio si trovano invece i rischi che si scateni una nuova corsa agli armamenti e che il minore coinvolgimento di soldati umani — grazie ad armi ipertecnologiche rese sempre più autonome dall’impiego di sofisticati algoritmi — faccia aumentare i teatri di battaglia, con tutto ciò che ne consegue in termini di devastazioni e vittime civili. Un punto sottolineato con forza nella recente lettera inviata alle Nazioni Unite da 116 esperti di robotica e intelligenza artificiale (capitanati da Elon Musk) in cui si chiede che le armi autonome vengano vietate.
Quel che è certo è che la trasformazione digitale dell’industria bellica sta raggiungendo il suo apice: una trasformazione che non riguarda solo le avveniristiche armi autonome, ma anche l’organizzazione delle strutture militari, soprattutto dal punto di vista della comunicazione, dell’intelligence e della condivisione di informazioni cruciali in tempo reale. In questo settore, l’Italia si trova in prima linea con il programma Forza NEC (network-enabled capability), sviluppato per l’esercito italiano da Leonardo in partnership con altre aziende italiane attive nel campo della Difesa, tra cui Iveco Defense Vehicles e Beretta. Forza NEC ha come obiettivo quello di formare una forza terrestre interamente digitalizzata, in grado di collegare in un unico network infrastrutture, mezzi e soldati, con lo scopo di ottenere una massima integrazione. “È tra i programmi più importanti al mondo per innovazione e capacità di trasformazione digitale”, prosegue Buratti. “Soldati, aerei, elicotteri e anche veicoli da combattimento diventeranno con Forza NEC delle unità digitalizzate, in grado di condividere in maniera istantanea tutte le informazioni che si possono reperire sul campo di battaglia”.
La posizione dei soldati, le informazioni di intelligence, video, immagini, mappe e quant’altro potranno venire condivise istantaneamente tra tutti gli attori in campo e risalire rapidamente, con affidabilità massima, la catena di comando: “Ciò consentirà di prendere decisioni certe e in tempo rapido, diminuendo anche i rischi: si tratta di un salto di qualità estremamente importante”, spiega ancora Buratti. La fase di validazione di Forza NEC, vasto programma dal costo complessivo di 22 miliardi di euro, verrà completata nel 2018, ma già adesso alcune componenti sono attive sul campo, per esempio i VBM Freccia (veicoli blindati medi) attualmente usati dalle forze italiane di stanza in Afghanistan.
I nostri “soldati futuri” gireranno per i teatri di guerra indossando occhiali balistici antilaser, elmetti con display miniaturizzati e fucili superleggeri con microcamera termica
Quando il programma sarà completo, i nostri “soldati futuri” (come da nome della porzione del programma che si occupa della fanteria) gireranno per i teatri di guerra indossando occhiali balistici antilaser, elmetti con display miniaturizzati e fucili superleggeri con microcamera termica. “Il fucile d’assalto ARX-160 della Beretta (testato in Afghanistan) è praticamente pronto: ogni squadra riceverà anche una versione con lanciagranate” si legge su Difesa Online. “Il cecchino di ogni plotone sarà equipaggiato con il fucile da 7,62 millimetri ARX-200, dotato di ICS (Intelligent Combat Sight) sviluppato da Steiner, società controllata da Beretta. I comandanti di plotone, infine, saranno dotati di una sorta di tablet che collegherà in rete l’intera formazione. Il carico medio del soldato sarà di 30/40 chili: peso accettabile per movimenti rapidi”.
I visori notturni, già testati in Afghanistan, permetteranno inoltre di muoversi con facilità anche in condizioni di scarsa o nulla visibilità, mentre le immagini riprese dalla mini-telecamera posta in cima all’elmetto verranno trasmesse alla centrale operativa, consentendo di avere sempre sotto controllo l’intero processo. e di visualizzare la mappa con le posizioni dei nemici inviate in tempo reale dai droni autonomi che si occupano della sorveglianza. Parte integrante del network è anche il sistema UGS (Unattended Ground Sensors), che utilizza sensori in grado di percepire vibrazioni di ogni entità, monitorare gli eventi sismici, scattare e inviare fotografie e rilevare radiazioni; informazioni che saranno ricevute e trasmesse da un gruppo di soldati all’altro.
Ovviamente, la trasformazione digitale in campo militare non si ferma alla comunicazione. I protagonisti attivi sono soprattutto i droni, sui quali si riverseranno 123 miliardi di dollari di investimenti nel prossimo decennio (secondo un report Merryll Linch) e che nel giro di pochi anni, grazie all’impiego dell’intelligenza artificiale, potrebbero diventare completamente autonomi e quindi in grado di eseguire da soli compiti di ricognizione e sorveglianza. E, potenzialmente, decidere in autonomia quando ingaggiare il nemico. “Al momento, la tendenza è quella di controllare tutto da remoto; in futuro potrebbe esserci un maggiore grado di autonomia nella fase di sorveglianza, ma sicuramente non per quanto riguarda la reazione armata”, spiega Marco Buratti.
Bender è il drone capace di scovare e identificare i nemici armati anche quando si nascondono, di distinguerli da civili o fotografi
Uno degli esempi più lampanti di queste innovazioni è il drone autonomo, soprannominato Bender e sviluppato dalla statunitense DARPA (defense advanced research project agency), capace di scovare e identificare i nemici armati anche quando si nascondono, di distinguerli da civili o fotografi (una situazione che, in passato, ha confuso gli operatori umani con tragiche conseguenze), di pedinare i veicoli nemici e di trasmettere solo le informazioni rilevanti. Già nel 2018, invece, potremmo vedere all’opera il ben più inquietante Long Range Anti-Ship Missile della Lockheed Martin, in grado — secondo quanto scrive l’accademico Mark Gubrud su Spectrum, rivista specializzata dell’Institute of Electrical and Electronic Engineers — “di inseguire gli obiettivi, facendo affidamento solo sul suo software per distinguere le navi nemiche da quelle civili e di operare in maniera completamente autonoma, anche attaccando con forza letale”. L’importante, ciò che ha permesso di classificare quest’arma come “semi-autonoma”, è che il bersaglio sia stato selezionato da un operatore umano.
Ma non sono certo solo gli Stati Uniti (che nel 2017 investiranno 18 miliardi di dollari nelle nuove tecnologie belliche investiranno) che stanno sviluppando armi di questo tipo: la Russia sta lavorando al suo sistema missilistico dotato di intelligenza artificiale; Israele ha messo a punto IAI Harpy, il drone armato in grado di riconoscere da solo i radar nemici e distruggerli; mentre il SGR-A1 di Samsung è un vero e proprio robot stazionario dotato di mitragliatrice, utilizzato dalla Corea del Sud nei 4 chilometri di zona demilitarizzata che la divide dalla Corea del Nord. Inizialmente pensato per fare fuoco autonomamente sui potenziali nemici, è stato modificato in seguito alle polemiche sorte in seno alla società coreana: oggi deve attendere un comando umano prima di sparare. Per quanto riguarda la Cina, è notizia recente il varo del Scientific Research Steering Committee, l’equivalente della DARPA, nel quale si riverserà una parte sempre più consistente dei circa 200 miliardi di dollari spesi dalla Cina nel settore bellico (seconda al mondo, dopo gli Stati Uniti). Si potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma il concetto è chiaro: tutte le superpotenze militari stanno sviluppando robot, droni o missili autonomi in grado di operare senza la necessità del controllo umano.
Giunti a questo punto, quanto manca prima che siano i software di intelligenza artificiale a prendere da soli le decisioni, compresa quella di fare fuoco? “Tutte le dottrine militari prevedono sempre l’intervento umano nelle decisioni di offesa”, prosegue Buratti di Leonardo. “Scenari di altro tipo sono solo fantascienza”. Non è il caso, per ora, di immaginare schiere di robot armati che combattono guerre in totale autonomia, mentre i generali osservano dai loro quartieri generali.
In effetti, l’obbligo dell’intervento umano nelle decisioni di offesa è stabilito anche da chi, più di chiunque altro, sta esplorando questa nuova frontiera del warfare. Gli Stati Uniti a maggio hanno reso permanente la norma del 2012 che prevede che ci sia sempre un essere umano coinvolto nel processo decisionale che porta all’uso della forza letale; mentre l’opposizione del Regno Unito alla richiesta di mettere al bando le armi autonome è stata motivata spiegando che “le leggi umanitarie internazionali regolano a sufficienza la materia” e che “tutte le armi dell’esercito britannico saranno sempre sotto il controllo e la supervisione umana”.
“Chi diventerà leader nel campo dell’intelligenza artificiale dominerà il mondo”, parola di Vladimir Putin
Ma come si fa ad avere la certezza che, prima o poi, qualcuno non decida di abbandonare gli scrupoli e affidi a una AI tutte le decisioni? La storia insegna che, di solito, il primo che trasgredisce scatena un effetto domino che trascina tutti gli altri. E se anche fosse vero che un software è in grado di prendere decisioni in maniera più lucida e razionale di soldati sottoposti a difficilissime condizioni psico-fisiche, è anche vero che si aprirebbero questioni etiche alle quali è difficilissimo dare risposta: lasceremo che siano i computer a decidere qual è uno scambio ragionevole tra progressi militari e vittime civili? E chi sarà il responsabile in caso di un malfunzionamento o di un errore che causi una strage?
Queste incognite sono alla base delle richieste — inviate all’ONU nel 2015 e nel 2017 — di mettere al bando le armi autonome, ma la sensazione è che nessuna nazione voglia correre il rischio di lasciare ad altri un tale vantaggio strategico e che si sia piuttosto sulle soglie di una corsa ipertecnologica agli armamenti, scatenata dai progressi compiuti da alcune nazioni e dal timore delle altre di restare indietro. Lo ha detto recentemente lo stesso Vladimir Putin: “Chi diventerà leader nel campo dell’intelligenza artificiale dominerà il mondo”. Parole che non aiutano a rasserenare il clima.